Achille Campanile, nonostante il padre volesse evitargli la carriera di giornalista, cominciò presto a familiarizzare con la carta stampata. Entrò infatti, dopo il liceo,
come correttore di bozze al quotidiano
La Tribuna, proprio dove suo padre lavorava come redattore, insieme a Lucio D'Ambra, Fausto Maria Martini,
Santi Savarino, Mario Corsi. Era il 1918 e viste le insistenze del figlio, Gaetano Campanile
si rassegnò ad introdurlo nella Tribuna.
La gavetta

"Mio padre" raccontava lo scrittore "mi diede una mano perché entrassi come correttore di bozze alla
Tribuna, il giornale dove lavorava lui. Io ero molto felice, era un lavoro che mi dava la possibilità di respirare aria di giornale! Ma ero così distratto, che gli errori non si contavano, i refusi, le righe saltate, anche il senso storpiato. E poi era triste fare il correttore. Come stare in un ufficio, dove si desidera soltanto che il tuo lavoro vada a un altro".
Quel lavoro fu prezioso per il giovane Campanile perché gli consentì di conoscere il meccanismo del giornale, a cominciare dalla notizia. "Ma non ero contento," ripeteva lo scrittore "intanto perché allora i correttori non li consideravano come adesso, ci mettevano i vecchi proto che per qualche infortunio non potevano più lavorare alle macchine. Si era pagati a settimana, e poco. E quando arrivavano le notizie era una lotta tra noi correttori a chi "non" le pigliava, specialmente quando erano da correggere enormi malloppi o stampati a caratteri piccoli. Si guardava altrove con indifferenza, si faceva gesti come per salutare un amico; ma poi alla fine qualcuno doveva prenderli.... Io invidiavo i redattori, che conobbi, quando venivano in tipografia: il famoso
Rastignac, pieno di prosopopea, una specie di monumento vivente:
quando usciva un suo articolo la tipografia era rivoluzionata..."
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All' Idea Nazionale
Poi diventò segretario di redazione. Ne cercavano uno all'
Idea Nazionale e
Maffio Maffii, che era caporedattore della Tribuna, lo propose. L'ldea Nazionale, in quegli anni era diretta da
Enrico Corradini. "Volli fargli fare bella figura"
raccontava "e decisi, per prima cosa, di riordinare l'archivio dei clichè. Riordinarlo secondo criteri più razionali, più moderni. Così tirai fuori tutti i clichè, cioè le
fotografie già pronte per andare in stampa anche all'ultimo momento, li levai dalle buste, preparai tutto. Poi però mi scocciai, a metà del lavoro. Allora rimisi tutto nelle
buste a caso che nessuno se ne accorgesse. Fu un disastro, da allora al giornale non si capì più niente, succedevano fatti tremendi: cercavano nella busta dei terremoti e
venivano fuori delle scene di nozze. Allora disperati mi promossero".
Furono costretti a metterlo in redazione, come testimonia la lettera di incarico del
22 gennaio 1920. "Ma mi guardavano con sospetto" ricordava Campanile "non mi affidavano mai le notizie. E allora, alla fine della giornata, svuotavo i cestini
degli altri giornalisti e prendevo tutto quello che avevano scartato: le notizie stupide, inutili, di poco conto: parlavano di popolane che si azzuffavano, di cocchieri che si
bisticciavano con i passanti. E le ricucinavo a modo mio in chiave comica... Un giorno che bisognava riempire urgentemente dello spazio vuoto mi feci coraggio e portai al
direttore uno di questi miei bozzetti di vita romanesca: da quel momento diventai scrittore!".
I suoi articoli piacquero e a poco a poco si fece strada. "Ebbi successo. Mi passarono alla cronaca mondana, vale a dire facevo la "sala" alle prime delle opere, segnalando i
presenti e le toilette delle donne. Ero il rincalzo del critico
Roberto Forges Davanzati che, essendo un corsivista politico, munito tuttavia di molte zie
appassionate del bel canto, si riteneva un esperto del settore. Poi passai in cronaca nera, e successivamente in terza, poi con i servizi di viaggi.
Appena mi sentii importante, decisi di adoperare il monocolo. Non l'ho più abbandonato, anche cambiando giornale. E di giornali io ne ho cambiati molti. Dall'Idea Nazionale
passai ad altri giornali: di nuovo alla Tribuna come redattore, poi alla
Stampa, all'Ambrosiano di Milano, al
Resto del Carlino,
alla
Gazzetta del Popolo. In Italia i giornali, credo, di averli passati quasi tutti."
Quando era redattore dell'Idea Nazionale il giovane Campanile corse il rischio di diventare un inviato speciale politico. Se non lo diventò fu per quel suo destino di vivere
gli aneddoti che scriveva.
L'episodio ce lo racconta
Alberto Cavallari in un articolo del Corriere d'informazione 3-4 gennaio 1958 "....Venne spedito ad incontare
Mussolini a
Civitavecchia durante la marcia su Roma. Arrivò alla stazione mentre i fascisti facevano quadrato, una tromba squillava l'attenti e nel silenzio generale, Mussolini stava scendendo dal treno. Il momento era storico. Nessuno fiatava. Ma d'un tratto si vide un ometto col monocolo, flemmatico e distratto, anadare verso Mussolini. Nessuno credendolo un personaggio importante lo fermò. Anzi tutti tesero le orecchie supponendo che, a questo punto, quel signore rivolgesse a Mussolini la debita frase storica. Invece, si vide l'uomo dal monocolo togliersi il guanto e dire al duce: "Permette? Campanile". La comicità di questa battuta aveva fatto crollare l'atmosfera "eroica" se Mussolini non l'avesse guardato, con forza, negli occhi. Campanile si trovò di colpo lontano. Oggi è di quelli che giurano che Mussolini
avesse straordinarie doti d'ipnotizzatore."
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Il Travaso
Continuò a scrivere pezzetti e raccontini per l'Idea Nazionale, a volte con lo pseudonimo
Trappola, mentre al
1922 risale l'inizio della collaborazione al
Travaso delle Idee. Il Travaso delle Idee era un giornale di
pungente satira politica nato in età giolittiana ed affermatosi agli inizi del fascismo. Il periodo nel quale si svolse la collaborazione di Campanile coincide con quello della
direzione di
Guasta, processato nel
1925 per oltraggio al pudore, e vide la trasformazione del giornale che abbandonò gli accenti di satira
nei confronti del fascismo per diventare giornale brillante con articoli e battute argute, senza prendere di mira o a riferimento personaggi o situazioni ben precise.
Del resto il mutato clima politico, soprattutto dopo il '25 e i provvedimenti sulla stampa, consigliavano una maggior cautela a intellettuali e giornalisti. E Campanile non ne
fu esente, benchè potesse, all'occorrenza contare su appoggi ad alto livello negli ambienti fascisti, essendo stato il padre per alcuni anni nell'ufficio stampa del Governo
Mussolini. Per questo settimanale satirico umoristico scrisse un gustoso romanzo a puntate, alla maniera di quelli d'appendice che allora erano in voga nei quotidiani:
"Matta Heri", una storia buffa che rifaceva il verso alle spericolate avventure della famosa spia. II suo primo romanzo.
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Con Battista al Giro

Collaboratore dei maggiori giornali italiani, tra i quali la
Gazzetta del Popolo di Torino, Campanile diventò popolare nel 1932, quando, inviato al seguito del
Giro d'Italia, inventò il personaggio di "
Battista" il cameriere gregario. Come è scritto nella Premessa a Battista al Giro d'Italia,
indirizzata al direttore
Ermanno Amicucci, mentre l'autore era alle prese con la preparazione di alcuni romanzi, tra cui
Chiarastella, gli fu chiesto di seguire il Giro. L'esperienza fu esaltante e venne accolta con gran favore dal pubblico come ricordava lo stesso
Campanile che, raccogliendo i servizi nel libro Battista al Giro d'Italia, dichiarò che lo aveva fatto per "rendere un omaggio al giornalismo".
"I Giri d'Italia d'un tempo erano più divertenti, perché meno tecnici. Più sportivi, più allegri. Poi hanno avuto pretese scientifiche. Del resto, anche i giornali erano più
allegri. Un tempo poteva accadere che un giornale, come la Gazzetta del Popolo, di cui ero inviato speciale, permettesse di fare il tifo per i "Sempre in Coda" I Sempre in Coda

erano quelli che arrivavano ultimi, come
predestinati. Io partii da un moto di simpatia per questi disgraziati pieni di buona volontà, fra cui c'erano anche ottimi elementi, e ne feci dei personaggi. Un altro
personaggio era il fedele Battista, il servitore personale che mi accompagnava. Lui in bicicletta io in automobile. Lui sempre cercando di aiutare qualcuno, sottoponendosi
a fatiche tremende, generoso com'era. Una volta, figuriamoci, quel matto si mise in testa di spingere un rimorchio... Raccontavo tutto nel giornale, e la gente si divertiva,
a volte per strada si trovavano dei cartelli con su scritto "viva Battista", portavano persino omaggi, regaletti, panini, profumi... C'era da ridere. Ma si divertivano anche
gli altri, mi pare. Qualche corridore non stava allo scherzo. Quanto al direttore, poiché avevo successo, gli andava bene. E del resto, cosa avrebbe potuto fare? Mandarmi via?
A cambiare giornale, io ero abituato."
"Mi misi nei guai anche coi corridori" ricordava lo scrittore "qualcuno se la prese. Gerbi, una volta che lo avevo messo al secondo posto (non era in giornata, era arrivato
penultimo) mi affrontò duramente: "Lei " grida "dovrebbe avere più rispetto. Dovrebbe provare a fare la corsa, vedrebbe che fatica. Invece di fare la bella vita in macchina,
col suiveur..." Ragionava un po' come il mio direttore, che ogni tanto mi spediva letteracce, mandava telegrammi di insulti, faccia questo, perché ha detto quell'altro.
Ma io raccontavo quello che facevano Battista e gli altri no?.... mica potevo inventarmi la corsa. E' una vitaccia quella dell'inviato speciale. Tanti credono che sia
invidiabile ma non è così. Dicono, lui pranza, lui gira, vede le cose. Quelli degli anni dell'inviato speciale (i Giri d'Italia, poi siccome avevano avuto successo,
quelli di Francia, tanti) sono tra i miei ricordi più tristi. Del resto anche dopo posso dire che non ho mai vissuto. Perché è la verità. Sono sempre stato seduto a
scrivere o, anche se non stavo a tavolino, stavo sempre in mezzo alle carte. D'estate, ad esempio, andavo al mare e stavo sempre in albergo: a lavorare. A scrivere: le
cose inventate e le cose vere".
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A passeggio col mostro
Sempre con la
Gazzetta del Popolo di Torino, e a sue spese era andato in Scozia mandando corrispondenze in cui diceva di aver trovato il
mostro di Loch Ness, di aver fatto amicizia con lui, di averlo fatto uscire dal lago e di avergli insegnato l'inglese: raccontava che il mostro era
tristissimo perché si sentiva troppo solo, unico superstite di una specie scomparsa da millenni.
" L'intervista con il mostro di Loch Ness fu un colpo di fortuna. Era intorno al
1930, mi pare, quando tutti si interessavano di questo mostro, che un po'
appariva e un po' spariva. E il direttore mi dice: "Parti, va' un po' a parlare con quelli che l'hanno visto". E invece mi capita proprio che riesco a vederlo io stesso e a
catturarlo. L'ho intervistato, si capisce, ma poi son rimasto con lui perché eravamo diventati amici. Era una specie di dinosauro che aveva imparato a parlare inglese e
faceva osservazioni assai sensate sulla nostra vita, come un autentico filosofo. Me lo portai appresso, venne a Londra con me, lo accompagnai al circo equestre, al giardino
zoologico. E lui, che aveva ormai imparato bene a parlare, mi faceva le riflessioni su questo mondo che lui non apprezzava.
Diceva: come siamo ridotti, questa inciviltà che c'è, ai miei tempi... Si sentiva solo, poveraccio. A volte lo trovavo in albergo ( in corridoio, il mio amico era così lungo!)
che piangeva perché non c'era più nessuno dei suoi; lui era l'unico uovo che era finito sul fondo del lago. E al freddo si era conservato e poi era venuto fuori questo mostro
mentre tutti gli altri erano morti. Non ho potuto farlo tornare nel Loch Ness perché mi è morto una volta che lo portavo in giro. Ma non se n'è accorto nessuno a Loch Ness...
il turismo continua e ogni tanto qualcuno dice di aver visto il mostro. E' morto proprio di nostalgia. E del resto questo ha avuto anche delle conseguenze su di me, sul mio
modo di scrivere. Portandomi ad un umorismo, penso, meno astratto, meno impietoso ".
"Ammetto che ebbi successo presso il pubblico, tanto è vero che quell'anno a Carnevale, fu di gran moda presentarsi ai veglioni mascherati da dinosauro. Insomma andò benissimo:
il direttore del giornale, dapprima non aveva voluto mandarmi in Scozia a catturare il mostro. Aveva i suoi dubbi sulla vicenda. Così ero partito a mie spese: ma proprio la
mattina in cui arrivò il mio primo articolo,
La Stampa, il giornale concorrente, dava una notizia sull'animale preistorico. Così il giorno dopo la Gazzetta pubblicò la mia corrispondenza. Risultato:
alla fine mi sono state rimborsate tutte le spese".
Prima della seconda guerra mondiale dal 1938 al 1940, con
Cesare Zavattini, diresse il settimanale umoristico mondadoriano
"
Settebello", nella cui redazione collaboravano
Guasta,
Steimberg e
Trilussa e i più giovani
Marchesi,
Patti, e
Marotta.
Ma è sempre sulla Gazzetta del Popolo e precisamente nel "
Fuorisacco" che Campanile,
attraverso
Gino Cornabò ne il Diario di un uomo amareggiato riesce a delineare un personaggio, assunto ad emblema e riferimento del ceto medio italiano.
Nel periodo del dopoguerra, quando decide di trasferire la sua residenza abituale da Roma a Milano
Campanile collabora con il Corriere della Sera.
Il rapporto che lo scrittore ha avuto con i propri "datori di lavoro" è stato sempre piuttosto complicato, sia che si trattasse degli editori sia dei direttori dei giornali, ai quali collaborò. Ciò è testimoniato da diversi scambi epistolari, dai quali si legge come a Campanile, già affermato scrittore, venisse supplicato di inviare il pezzo concordato o il racconto che doveva uscire nel numero in fase di chiusura.
"Tutta la mia vita è stata perseguitata dalla necessità di scrivere articoli, da quelle voci che ti telefonano di giorno e di notte, e ti chiedono tre cartelle, otto paginette, una cosa rapida, una cosa meditata. Tutti i viaggi che ho fatto, tutta la mia vita sono stati rovinati dal fatto di dover poi
scrivere un articolo".
Del resto Campanile, visti alcuni clamorosi ritardi, dava motivo per essere continuamente sollecitato e forse se la prendeva un po' comoda perché sapeva di essere Campanile. Tra questi persecutori Campanile ricordava in modo particolare
Gaetano Afeltra.
"Per causa sua io sono andato via da Milano. Telefonava in tutte le ore del giorno e della notte, litigava con tutti i miei familiari, nemmeno li credeva, quando quelli, poveretti, gli dicevano che avevo avuto un infarto. Erano ammaestrati a rispondere così, s'intende, ma lui avrebbe dovuto far finta di credere. Per rendere la faccenda più credibile, a volte dicevano che l'infarto era una cosa da nulla, una sciocchezza, insomma quasi un piacere, e quello niente, cocciuto ripeteva che voleva un articolo sulla prostituta ammazzata col ferro da stiro, sulla gatta che aveva partorito sette gattini con una sola zampa. Da quel periodo di Milano da quando litigava con tutti i miei familiari, ad Afeltra rimase una strana abitudine. Mi telefonava appena stavo male. Non per informarsi della mia salute, ma per chiedermi un articolo. Tanto, lui, ai miei infarti era abituato, e così anche quelli veri gli sembravano poca cosa. "
Nonostante alcune incomprensioni, gli articoli brillanti e i suoi lavori pubblicati sui vari quotidiani e riviste, se da un lato hanno reso famoso Campanile, hanno però contribuito a fare la fortuna di giornali, facendo diventare il "campanilismo" un aspetto dell'Italia e le sue storie, il suo "riso scemo" come lo definì
Pancrazi, un momento della vita nazionale.
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