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Giovanni Arpino
da "È morto Campanile" La Stampa 5 gennaio 1977
Giovanni Arpino Quando, tra le due guerre, la Gazzetta pubblicava a Torino le storie del povero Gino Cornabò (non sono neanche cavaliere) i nostri padri si torcevano sulla poltrona. Vessato dalla serva, maledetto dalle circostanze, dignitosamente fedele ad un concetto astratto della Dignità, Gino Cornabò, che pedinava le donne maliarde camminando davanti a loro, per fingere indifferenza, era un minimo alter ego ad ogni forma di gallismo, di codici d'onore, di virulenza italica mal interpretata. E faceva ridere. Campanile sembra non avere retroterra, nel panorama serioso delle lettere nostrane: ma invece sono riconoscibili nelle sue vene i buoni bacilli di un Futurismo non manierato, le stramberie dei grandi "minori" del Quattro e Cinquecento. Visse secondo un'ottica particolare, non cedendo mai al gusto corrente, ma solo al proprio. Le sue Tragedie in due battute (ne ha scritte più di cinquecento), le commedie che nel '20 comincia ad affidare al Teatro degli Indipendenti diretto da Anton Giulio Bragaglia, i suoi romanzi più fortunati e sottili (da Ma cosa è quest'amore? a Se la luna mi porta fortuna) offrono un tessuto che non è solo cipria, di grazia, non è solo divertimento e "fuga", ma possiedono critica, occhio fulmineo sul costume. In un universo di Pio Percopi, bellissimi Cecè, Ercolini, Isolin Merzabotto; il tocco di Campanile era una bacchetta di diverso genio, oggi riscoperta non per smania "retrò" ma per la forza della misura. Troppe volte è stato detto: è il nostro Ionesco, però nato prima. Un giudizio che volendo riportare nella cornice esatta una vicenda, un uomo, la sua opera e la Storia, rischia di diventar semplicistico. Campanile è ben diverso da Ionesco, così come una farfalla è diversa da un tafano. Certo vi sono rassomiglianze (spesso abusive e con le date a favore del patriarca Achille) tra i due, ma il mondo campanilesco è una galassia di frammenti colorati che non vogliono, anzi