Quando, tra le due guerre, la Gazzetta
pubblicava a Torino le storie del povero Gino Cornabò (non sono neanche
cavaliere) i nostri padri si torcevano sulla poltrona. Vessato dalla
serva, maledetto dalle circostanze, dignitosamente fedele ad un concetto
astratto della Dignità, Gino Cornabò, che pedinava le donne maliarde
camminando davanti a loro, per fingere indifferenza, era un minimo alter
ego ad ogni forma di gallismo, di codici d'onore, di virulenza italica mal
interpretata. E faceva ridere.
Campanile sembra non avere retroterra, nel
panorama serioso delle lettere nostrane: ma invece sono riconoscibili
nelle sue vene i buoni bacilli di un Futurismo non manierato, le
stramberie dei grandi "minori" del Quattro e Cinquecento. Visse secondo
un'ottica particolare, non cedendo mai al gusto corrente, ma solo al
proprio. Le sue Tragedie in due battute (ne ha scritte più di
cinquecento), le commedie che nel '20 comincia ad affidare al Teatro degli
Indipendenti diretto da Anton Giulio Bragaglia, i suoi romanzi più
fortunati e sottili (da Ma cosa è quest'amore? a Se la luna mi porta
fortuna) offrono un tessuto che non è solo cipria, di grazia, non è solo
divertimento e "fuga", ma possiedono critica, occhio fulmineo sul costume.
In un universo di Pio Percopi, bellissimi Cecè, Ercolini, Isolin
Merzabotto; il tocco di Campanile era una bacchetta di diverso genio, oggi
riscoperta non per smania "retrò" ma per la forza della misura.
Troppe volte è stato detto: è il nostro
Ionesco, però nato prima. Un giudizio che volendo riportare nella cornice
esatta una vicenda, un uomo, la sua opera e la Storia, rischia di diventar
semplicistico. Campanile è ben diverso da Ionesco, così come una farfalla
è diversa da un tafano. Certo vi sono rassomiglianze (spesso abusive e con
le date a favore del patriarca Achille) tra i due, ma il mondo
campanilesco è una galassia di frammenti colorati che non vogliono, anzi