Cara Barbara, è passata più di qualche settimana da quando ti
promisi due righe su papà, ma scrivere una lettera, per noi Campanile, non è mai
stato cosa da poco.
Ricordo che mio padre era sempre attento alla necessità di rispondere celermente alle missive d'ammiratori o d'improvvisati autori che
chiedevano pareri, di lettori che davano consigli, o di altri indignati per aver
letto un suo articolo o un suo romanzo. Così le riponeva in scatole all'uopo
preposte, poi per qualche giorno andava ripetendo che doveva rispondere a
Caio o ringraziare Tizio e finalmente, passata una o due settimane al
massimo, le dimenticava...
Nel confusionario archivio che hai consultato, in un armadio, un po'
nascoste, ci sono ancora quelle lettere, alcune datate addirittura 1923,
ancora conservate nelle scatole sulle quali campeggia a gran caratteri la
qualifica di "URGENTISSIME DA EVADERE".
A te è andata meglio, anche se nell'era del computer e d'lnternet
attendere una risposta qualche settimana equivale ad attenderla per l'eternità.
Chi sa come avrebbe vissuto l'era del computer mio padre, lui che già utilizzava il "taglia" e "incolla" quando riordinava i propri lavori. Sì,
quando li ordinava, perchè quando sedeva alla sua scrivania aveva già tutto scritto. Ovunque si trovasse quando gli veniva un'
idea la scriveva utilizzando ciò che aveva a portata di mano: foglietti di carta velina o
buste per lettera aperte in tutti i lati, rivoltate e utilizzate all'interno;
biglietti del tram e perfino foglietti dove precedentemente aveva disegnato
qualche suo personaggio. Così allargava i suoi foglietti sulla scrivania
aumentando, per quanto fosse possibile, la confusione, prendeva le lunghe
forbici, la coccoina in va setto col pennellino, e cominciava a tagliare ed
incollare, ogni tanto scriveva qualche frase per legare i periodi e faceva
alcune aggiunte. Terminato il collage, radunava le carte e chiamava mamma, la dattilografa che ha ispirato La caduta del ragno, che
trascriveva a macchina.
Nel '56 era in arrivo, a detta di lui, il suo vero capolavoro. Ci teneva
che nascessi romano, ma il suo lavoro si svolgeva a Milano. Così facevamo
la spola con Roma, dove stavano organizzando l'appartamento. Stanco dell'incomoda posizione e degli sballottamenti dovuti ai fondi sconnessi
delle strade consolari che si percorrevano durante i viaggi, decisi di venir al
mondo con qualche giorno d'anticipo, cogliendo impreparata la famiglia.
La notte in cui cominciò la grande nevicata del '56 commisi il mio primo
errore di gioventù: nacqui milanese.
Ormai venuto meno il motivo, rinunciò a trasferirsi nella Capitale.
Abitavamo a piazza della Repubblica in appartamento al decimo piano; io
che camminavo da poco, riuscii, non visto, ad arrampicarmi sulla sua
scrivania, m'impossessai di alcuni foglietti di carta velina colorata e andai a
gettarli dalla finestra. Leggeri si allontanarono prendendo direzioni
diverse, ma non erano carta di poco conto, erano un articolo che doveva essere
consegnato in redazione da lì a poco.
Quando se ne accorsero, mia madre, che era la severa di casa, mi redarguì ma papà intervenne asserendo che in fondo avevo dimostrato uno
spiccato senso critico.
Passammo qualche anno tra nebbia ed estati afose, poi, l'amore per
Roma 10 convinse a traslocare.
Ricordo i facchini che impacchettavano, smontavano armadi e imballavano, chiudevano casse e portavano in strada la mobilia; quando fu
portato giù tutto, papà, che stava scrivendo, scese, si accomodò nella sua poltrona
posta al centro del marciapiede e continuò il suo lavoro per strada tra 10
stupore dei passanti e dei facchini. Da Roma poi ci trasferimmo in campagna a Velletri, in un casolare contadino ristrutturato in parte, senza
corrente elettrica e senza telefono. Passammo così l'estate mentre i muratori
lavoravano per completare la ristrutturazione. Era per tutti un paradiso.
Avevamo tutt'intorno una vigna rigogliosa, carica di uva quasi matura e alberi coloratissimi dai tanti frutti che portavano. 10 scorrazzavo con il
motorino appena regalatomi, mamma si occupava dell'orto e papà,
serafico, si riposava prendendo appunti. Avevamo anche una gallina che veniva
a deporre l'uovo sul davanzale della cucina. Poi si dice cervello di gallina...
Quella era perfettamente conscia della fine riservata alla sua progenie.
L 'inverno ci trovò con i lavori non ancora terminati ma l'estate
successiva era tutto pronto e potemmo finalmente riospitare le mie cugine, orfane
di madre, che già stavano con noi da Milano, e in più altre due sorelle
anch'esse orfane le quali normalmente erano ospitate in un collegio di
Velletri. La casa si popolò, inoltre, di miei amici con i quali strimpellavamo
quasi tutto il giorno con strumenti elettronici, incoraggiati da papà che
vedeva positivamente ogni mia iniziativa. Poi c'erano gli amici di mio padre con le loro famiglie e i nuovi vicini e i parenti: zia Anna, la sorella di
papà e i suoi figli, anch'essi miei cugini ma a loro volta già con figli,
insomma un porto di mare. Mamma cucinava bibliche pastasciutte per tutti e
papà, molto soddisfatto, nonostante tanta confusione riusciva egualmente a
scrivere.
Ora avevamo la corrente elettrica e il telefono, la vigna non c'era più
perchè farcela lavorare costava talmente tanto che, diceva papà, ci sarebbe
convenuto pasteggiare a champagne, la frutta si comperava al mercato e l'orto, coltivatoci da altri, era l'unico superstite della nostra epopea
contadina.
Papà, taciturno come sempre, amava essere contornato dalla vivacità dei giovani che ascoltava e osservava con piacere. Osservare e ascoltare era
il suo modo di trarre spunti dal quotidiano. Sai, quel figlio naturale o
legittimo de l'acqua minerale sono io, la dattilografa pasticciona era mamma
come era Teresa alla quale piace fare affari e per questo compera una
portaerei d'occasione. Non si stancò mai di scrivere. Scrisse fino all'ultimo con
quel modo disordinato di farlo nella sua quasi indecifrabile grafia, ma si
era così impratichito nell' arte del riordino degli appunti, che i pezzi per il
giornale li organizzava mentre li dettava al telefono ad una dattilografa
della redazione. Non contento dell'incredibile confusione, nell'attesa tra
una frase e l' atra, disegnava sugli stessi foglietti, profili a nasi sovrapposti
tracciati senza staccare dal foglio l'inseparabile mozzicone di lapis che
teneva nella tasca dei pantaloni.
Lo ricordo sempre sereno e soddisfatto con quella bella barba da
patriarca che si lasciò crescere perchè glielo consigliai io.
Voglio concludere questa mia con una notizia poco nota.
La vera vocazione di mio padre era quella di essere autore drammatico, ovviamente non è vero, ma è vero che quando cominciò il liceo, il suo
professore di lettere gli disse che aveva sentito parlare di lui dai colleghi
che insegnavano al ginnasio. Parlavano bene dei suoi scritti, ma erano troppo lacrimevoli...
Così per ripicca scrisse la sua prima scenetta umoristica: Rosmunda.
Grazie professore!
Ciao
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